Il Nome della Rosa

Un’abbazia medievale isolata. Una comunità di monaci sconvolta da una serie di delitti. Un frate francescano che indaga i misteri di una biblioteca inaccessibile.
Questo è un riassunto del libro scritto a modo mio per te che hai sempre fretta o semplicemente non hai voglia di affrontare centinaia di pagine. Se invece hai davvero voglia di leggere il libro originale puoi tranquillamente acquistarlo qui
RIASSUNTO
Prologo – Le cose che non ho mai raccontato
A volte, quando l’inverno è lungo e la notte fa più rumore del giorno, mi capita di pensare a quegli anni.
Non ci penso sempre.
Ci penso quando sento l’odore della pergamena vecchia, quando una candela si consuma troppo in fretta, o quando qualcuno, in modo del tutto casuale, pronuncia la parola “verità”.
Allora mi tornano in mente i corridoi bui, le ombre che si allungavano sui muri freddi, le voci sussurrate in latino… e quell’uomo. Guglielmo.
Ero giovane.
E, come tutti i giovani, credevo di sapere.
Credevo che la fede fosse solida, che la ragione avesse sempre la meglio, e che bastasse cercare per trovare risposte.
Poi è arrivato lui.
E con lui, l’abbazia.
Un luogo che sembrava fuori dal mondo.
Silenzioso, immobile, quasi perfetto.
Ma come succede spesso, sotto l’apparenza c’era qualcosa che puzzava di marcio.
Un mistero. Un cadavere. E poi un altro.
E io lì, con i miei dubbi nuovi, la mia innocenza, e il mio maestro accanto.
Guglielmo da Baskerville, con quella mente tagliente e quell’umorismo sottile, come uno che ha capito tutto ma non lo fa pesare.
Sono passati tanti anni. E ora, che ho vissuto, sbagliato, amato, perso… ho deciso di raccontare.
Non perché voglio fare il saggio.
Non perché mi senta migliore.
Ma perché alcune storie restano dentro. E se non le tiri fuori, finiscono per logorarti in silenzio.
Non so se quello che leggerai ti farà paura, se ti farà pensare, o se semplicemente ti sembrerà strano.
Ma ti assicuro una cosa: ogni parola che ho scritto nasce da qualcosa che ho vissuto davvero.
Qualcosa che mi ha cambiato.
Che mi ha tolto alcune certezze e, forse, me ne ha lasciate di nuove. Più fragili, ma più vere.
Questo non è solo un giallo medievale.
È la storia di un tempo che non c’è più, e di un ragazzo che ha visto morire la sua innocenza dentro un labirinto di libri, segreti, e risate vietate.
E se sei qui… allora forse anche tu hai voglia di entrare.
Ma ti avverto: una volta entrato, uscire non sarà semplice.
Primo giorno – Prima (l’alba)
(come quando arrivi in un posto nuovo e tutto sembra più grande di te)
Era ancora buio quando abbiamo visto l’abbazia.
C’era quell’odore di terra bagnata e legna umida che solo il mattino molto presto sa regalarti. Quel momento sospeso in cui il mondo sembra ancora incerto se svegliarsi o restare nel sogno.
Guglielmo camminava qualche passo avanti a me, con il passo deciso di chi sa dove sta andando. Io invece no. Io ero lì, con il mantello pesante, le dita fredde, e quella strana sensazione di essere sul punto di entrare in qualcosa di grande, ma senza sapere ancora cosa.
Ogni volta che mi succedeva di vivere un inizio — e quel viaggio ne era uno — mi prendeva una specie di vertigine dolce. Come quando ti piace una persona e non è ancora successo niente, ma già tutto sembra possibile.
L’abbazia era lì, in cima al colle, silenziosa e immobile. Non una casa, non un semplice monastero. Sembrava una promessa. O forse una minaccia.
Imponente, chiusa, con le torri che tagliavano il cielo ancora pallido. Un labirinto di pietra, libri e segreti.
E io, con i miei vent’anni incerti e la mia fede ancora piena di domande, ci stavo entrando come si entra in una storia che non hai scelto, ma che in qualche modo stava già scegliendo te.
Guglielmo osservava tutto con occhi affilati. Non parlava molto, ma capivi che nella sua testa ogni dettaglio prendeva posto. Gli piaceva capire prima ancora di sapere.
Io invece mi limitavo a guardare, sentire, assorbire.
Avevo lasciato casa, sicurezze, riti familiari.
E ora ero lì, in mezzo a una foresta che si apriva su un edificio che sembrava più antico del tempo.
Non sapevo che lì dentro sarebbero morti degli uomini.
Non sapevo che mi sarei perso.
Che avrei amato, temuto, perso l’innocenza.
Sapevo solo che ero all’inizio.
E che a volte, la luce dell’alba è più inquietante della notte.
Perché rivela tutto. Anche quello che preferivi non vedere.
Primo giorno – Terza (mattino)
(quando il sole si alza, ma le ombre diventano più lunghe)
Non era passata un’ora dal nostro arrivo, che già si sentiva qualcosa nell’aria.
Non saprei dirti se era davvero un odore, un suono, o solo una tensione sottile, come una corda tirata troppo a lungo. Ma c’era.
Era uno di quei silenzi strani, non vuoti ma pieni di cose non dette.
Il sole era salito appena, abbastanza da disegnare ombre nette sui muri dell’abbazia. Ogni pietra sembrava più antica, e ogni volto che incrociavamo aveva qualcosa di trattenuto, come se tutti stessero aspettando qualcosa — o nascondendo qualcosa.
Io seguivo Guglielmo, ovviamente. Lui aveva quel modo tutto suo di muoversi in un posto nuovo: camminava con calma, osservava tutto, ma sembrava sempre arrivare un secondo prima degli altri.
E fu così anche quella volta.
Ci dissero che un monaco era morto.
Adelmo. Un ragazzo, illustratore. Di talento, dicevano. Forse troppo.
L’avevano trovato ai piedi del muro della biblioteca, come se fosse caduto… o fosse stato buttato giù.
Nessuno diceva “omicidio”. Nessuno diceva nulla, in realtà. Solo occhi bassi, mormorii, e quella frase che si ripeteva come una preghiera recitata male:
“Forse si è tolto la vita. Era… tormentato.”
Guglielmo ascoltava, annuiva, ma lo vedevo che qualcosa non gli tornava.
“Dov’è il corpo?” chiese.
“Già sepolto. In fretta. Per rispetto.”
O per nascondere.
Io, onestamente, non sapevo cosa pensare. Ero lì da poche ore e già la morte aveva messo piede in quella che credevo fosse una casa di Dio.
Ma Guglielmo… lui no. Lui sapeva che il mistero vive nei dettagli, nei piccoli scarti, nei sussurri che sfuggono. E li stava già raccogliendo.
Ci portavano in giro, ci mostravano l’abbazia, i chiostri, le stanze, la biblioteca — anche se solo dall’esterno.
Quella torre… aveva qualcosa di respingente. Come un cuore che batte ma non vuole essere toccato.
Io la guardavo e avevo la netta sensazione che quella morte non fosse che l’inizio.
A volte la luce del mattino non illumina.
Fa solo vedere meglio dove le ombre si nascondono.
Primo giorno – Sesta (mezzogiorno)
(quando i misteri iniziano a parlare, ma nessuno ha il coraggio di ascoltarli)
Era mezzogiorno, o quasi. Il sole cadeva dritto sul cortile dell’abbazia, e le ombre si erano fatte corte, spigolose, quasi impazienti.
Camminavamo tra chiostri e pietre antiche, ma sembrava di essere dentro un corpo vivo. Ogni passo produceva un suono che non si spegneva subito. Rimbalzava tra i muri, come se le pareti volessero trattenere ogni parola, ogni respiro.
I monaci, in silenzio. Troppo.
Non era il silenzio della meditazione. Era quello carico di tensione. Il silenzio che si crea quando tutti sanno qualcosa, ma nessuno lo dice.
E io lo sentivo addosso, come una coperta che non scalda ma soffoca.
Guglielmo intanto continuava con la sua danza mentale. Lo vedevi da come guardava le cose: non solo le guardava, ma le leggeva. Ogni dettaglio per lui era un indizio, anche se ancora non sapevamo bene di cosa.
“Adso, hai notato i vetri della finestra della biblioteca?”
Io no. Avevo notato solo quanto fosse inaccessibile. Quella torre sembrava un castello dentro il castello.
“Hanno un disegno. Una simbologia. È come se quella finestra… parlasse.”
Parlasse di cosa?, pensavo io. Ma non lo dissi.
Nel frattempo, ci vennero incontro altri monaci. Uno, in particolare, sembrava diverso. Si chiamava Severino. L’erborista. Aveva mani grandi, da uomo che lavora, e occhi inquieti.
Ci parlò di erbe, di veleni, di rimedi. Di morte, senza parlarne davvero.
Mi accorsi di quanto poco sapessi del mondo.
Avevo studiato, sì. Teologia, retorica, storia sacra. Ma lì… lì si giocava un’altra partita. Lì c’erano segreti, verità nascoste, e persone che sapevano troppo. O troppo poco.
“Adelmo non si è ucciso,” mi sussurrò un monaco, appena voltai l’angolo.
Poi scomparve.
Era solo una frase. Ma dentro quella frase c’era un’apertura. Come un libro che comincia a sfogliarsi da solo, pagina dopo pagina, senza più permesso.
A mezzogiorno, con il sole dritto sulla testa, capisci che il mistero non aspetta la notte per muoversi.
E forse, proprio quando tutto sembra più visibile, è lì che le verità iniziano a nascondersi meglio.
Primo giorno – Nona (pomeriggio)
(quando il giorno inizia a piegarsi, e con lui anche le certezze)
Il sole cominciava a cedere, come se stesse stancandosi anche lui di illuminare un luogo così pieno di segreti. L’aria era diventata più densa, e ogni passo nell’abbazia suonava più pesante, più pieno di pensieri.
Camminavamo tra corridoi che sembravano tutti uguali. Guglielmo davanti, io dietro. Sempre con quella sensazione addosso, quella di entrare in un posto dove qualcosa ti osserva anche quando non c’è nessuno.
Il pomeriggio era il momento delle ombre più lunghe.
Quelle esterne… ma anche quelle interne.
Perché più parlavamo con i monaci, più mi rendevo conto che nessuno diceva davvero la verità.
Parlavano in modo controllato, dosato. Come se avessero imparato a raccontare solo metà delle cose.
La metà accettabile.
Guglielmo, intanto, cominciava a farsi domande su Jorge, il monaco cieco. Era anziano, rigido, con quella voce che sembrava tagliarti. Uno che non diceva cose a caso, ma ogni parola sembrava scelta per colpire.
E parlava sempre della verità.
Del pericolo del sapere.
Del ridere come qualcosa di quasi… demoniaco.
Io lo ascoltavo e sentivo qualcosa dentro agitarsi.
Un fastidio.
Come se qualcuno stesse cercando di nascondere la vita sotto il peso della dottrina.
Poi ci fu Salvatore.
Lui… era un’altra cosa. Parlava un miscuglio di lingue, latino e italiano, come se il cervello non riuscisse a stare dietro alla bocca. Era strano. Ma non finto.
Aveva quella follia trasparente che ti fa capire subito una cosa: lì dentro, c’era più umanità che in tanti altri.
Ecco, quel pomeriggio capii una cosa: l’abbazia era un mondo chiuso dove ognuno recitava il proprio ruolo. Ma sotto, ognuno aveva la propria verità. Le proprie paure. E forse, i propri peccati.
Mi sentivo piccolo, ma più sveglio.
Come se ogni ora trascorsa lì dentro mi facesse crescere in fretta.
Troppo in fretta.
“Adso,” mi disse Guglielmo sottovoce, “qui c’è qualcosa che non torna. E non riguarda solo una morte.”
In quel momento, se avessi avuto il coraggio di fermarmi e guardare bene, forse avrei visto tutto già chiaro.
Ma il cuore, si sa, sceglie sempre di credere un attimo di più, anche quando la mente comincia a sospettare.
Primo giorno – Vespri (tramonto)
(quando il giorno si spegne piano, ma le domande si accendono tutte insieme)
Il sole stava calando lentamente, e con lui anche le nostre certezze.
C’è un momento, tra il giorno e la notte, in cui tutto sembra sospeso. I colori si fanno più morbidi, ma i pensieri… quelli diventano più taglienti.
Era l’ora dei Vespri. E all’abbazia, questo significava riti, canti, preghiere.
E intanto, qualcuno nascondeva un segreto. O lo proteggeva.
Il chiostro si riempiva di voci basse, di sguardi che non si incrociavano.
Era come assistere a una recita in cui tutti sapevano il copione a memoria… ma nessuno voleva davvero interpretarlo.
Le parole del salmo salivano verso il cielo, ma io avevo la sensazione che a Dio interessasse di più il silenzio che veniva dopo.
Guglielmo ascoltava, ma non pregava.
Stava studiando. Sempre.
Ogni espressione, ogni reazione, ogni dettaglio che per chiunque altro era solo routine.
A un certo punto mi guardò e disse piano, quasi come se parlasse tra sé e sé:
“I luoghi santi hanno spesso i peccati meglio nascosti.”
Io non sapevo cosa rispondere.
Ero confuso. Stanco. Affascinato da quell’uomo che sembrava vedere dietro le cose.
Avrei voluto capire anche io, ma mi sembrava che più passava il tempo, più mi sfuggisse il senso di tutto.
Il corpo di Adelmo era ancora al centro dei pensieri di tutti.
Non si parlava apertamente, ma si avvertiva. Come si avverte l’odore della pioggia prima che cada.
Poi, per un attimo, il canto si spense.
E quel silenzio… fu quasi violento.
Come se l’abbazia stessa trattenesse il fiato.
Fu in quel momento che Guglielmo si alzò.
Uscimmo dal coro. E mentre il tramonto tingeva i muri di rame e sangue, lui disse:
“Dobbiamo entrare nella biblioteca.”
Io lo guardai come si guarda qualcuno che ha appena pronunciato una parola proibita.
Perché la biblioteca non era un luogo qualunque. Era il cuore dell’abbazia, ma anche il suo enigma più chiuso.
Un labirinto. Un codice. Un confine sacro.
Eppure, lo capivo: era lì che dovevamo andare.
Perché la verità non si trovava nelle parole dei monaci, né nei salmi recitati meccanicamente.
La verità, probabilmente, stava scritta da qualche parte. In un libro che qualcuno non voleva venisse letto.
Primo giorno – Compieta (notte)
(quando tutto tace, ma l’anima inizia a parlare forte)
La notte era scesa da un po’, e con lei, come sempre, il silenzio.
Ma non un silenzio qualsiasi.
Era il tipo di silenzio che ti guarda dritto negli occhi, e ti chiede se sei davvero pronto a sentire quello che, fino a quel momento, hai fatto finta di non notare.
Dopo i Vespri, il canto della Compieta aveva chiuso la giornata come una preghiera sussurrata troppo in fretta.
Tutti tornavano alle proprie celle, come se il buio fosse una consegna. Come se di notte, in un luogo santo, fosse meglio non fare domande.
Io ero stanco, lo ammetto.
Ma non riuscivo a dormire.
C’era qualcosa che mi girava addosso. Una sensazione che qualcosa stesse per accadere.
Guglielmo, invece, sembrava ancora più sveglio. Il buio lo stimolava, lo rendeva più lucido. Come se per lui la notte fosse una lente d’ingrandimento.
“Adso,” mi disse, “non è il giorno che rivela la verità. È la notte, quando tutti pensano che sia il momento per nasconderla.”
Uscimmo. Non avremmo dovuto, ma uscimmo.
L’abbazia era diversa al buio.
Non solo più scura — più viva.
I corridoi sembravano respirare. Le pareti sembravano ascoltare.
E poi c’era lei: la biblioteca.
Chiusa. Protetta. Ma non spenta.
Come se, anche da fuori, si percepisse che lì dentro qualcosa stava vegliando.
Guglielmo osservava le porte, gli accessi, i dettagli che io neanche vedevo.
Era come guardare qualcuno che dialoga con le ombre.
Io avevo paura. Lui no.
O forse sì, ma sapeva cosa farne.
Ad un certo punto si voltò e mi disse:
“Qualcuno entra qui, di notte. E non lo fa per leggere.”
Restammo lì, per qualche minuto, a sentire solo il rumore del vento e dei nostri pensieri.
La notte ci avvolgeva, ma non ci copriva.
Ci metteva alla prova.
E io, che fino a poche ore prima credevo che un’abbazia fosse solo preghiera e riflessione, cominciavo a capire che la fede può abitare anche l’inganno.
Che dietro ogni verità detta, ce n’è sempre una taciuta.
Secondo giorno – Prima (l’alba)
(quando la luce arriva, ma non basta a farti capire dove sei finito)
Mi svegliai prima del canto.
La luce dell’alba non era ancora vera luce, ma una specie di promessa che il giorno si sarebbe fatto vedere — prima o poi.
Fuori, un silenzio quasi liquido. Quello che senti solo in certi luoghi antichi, dove anche le pietre sembrano trattenere il fiato.
Avevo dormito poco.
Avevo sognato volti che non riconoscevo, scale che non finivano mai, e libri che si chiudevano da soli appena provavo a leggerli.
Quando aprii gli occhi, sentii che qualcosa era cambiato.
Non fuori.
Dentro.
In abbazia l’alba arriva piano, ma non ti illudere: ti sveglia comunque.
È un momento sospeso, in cui la fede si mescola alla fatica, e anche le ombre sembrano prendersi un attimo per riflettere.
Raggiunsi Guglielmo nel chiostro.
Era già sveglio, naturalmente.
Seduto su una panca, con quello sguardo che non era mai solo rivolto a ciò che vedeva.
Stava pensando.
Analizzando.
Preparando qualcosa.
“Adso,” mi disse, “oggi cerchiamo risposte. Ma non aspettarti che siano quelle giuste.”
Non risposi. Non ne avevo bisogno.
Con Guglielmo, spesso le parole erano solo una formalità. Il vero dialogo stava nel silenzio.
Camminammo fino al punto dove avevano trovato Adelmo.
Il sole cominciava a filtrare tra le pietre, e tutto sembrava un po’ più chiaro. Ma era solo un’impressione.
La verità, quella vera, restava nascosta.
Come una frase lasciata a metà in una lettera mai inviata.
“Guarda bene,” disse lui.
E io guardai.
Ma quello che vidi fu solo quello che volevo vedere.
Lui invece vide altro.
Una traccia. Un’incongruenza. Un’assenza che parlava più di mille prove.
L’alba aveva portato luce, ma anche più domande.
E dentro di me cominciava a nascere la certezza che non era solo una questione di morte.
C’era qualcosa che covava nell’abbazia. Qualcosa che riguardava il sapere. Il potere. La paura.
E forse… anche la risata.
Ma questo, allora, non lo sapevo ancora.
Secondo giorno – Terza (mattino)
(quando ti accorgi che il mistero non è fuori, ma dentro le cose che pensavi di conoscere)
Il mattino aveva un sapore più amaro del solito.
Forse era il freddo, forse il silenzio. Forse quella sensazione strana che ti prende quando cominci a capire che qualcosa non torna, ma ancora non sai cosa.
Il corpo di Berengario era scomparso.
Come se la notte avesse deciso di prendersi un altro pezzo di verità, e poi nasconderlo da qualche parte dove solo chi osa davvero può andare a cercarlo.
Ma l’abbazia non parlava. Non urlava. Semplicemente… si chiudeva.
Guglielmo camminava per i corridoi con quel passo che sembrava innocuo, ma era come un bisturi tra le crepe dell’apparenza.
Lo seguivo, come sempre. Ma ora sentivo che ogni nostro movimento faceva rumore nel silenzio di chi ci osservava.
Il mattino si era acceso da un po’, ma sembrava tutto più spento.
I volti, le mani, gli sguardi.
Persino il canto sembrava recitato con meno fede e più paura.
Ci trovammo di nuovo davanti alla biblioteca.
La guardai, e mi sembrò ancora più alta, più chiusa, più viva.
Come se sapesse.
“Qualcuno è entrato, Adso. Qualcuno ha letto ciò che non doveva. O ha visto qualcosa che doveva restare nascosto.”
Lo disse senza enfasi, come chi nomina una legge naturale. Come chi parla del vento.
E io pensavo a Berengario. Al suo silenzio. Ai suoi occhi. Alle voci che giravano.
Cose che non capivo, ma che mi facevano male dentro.
Perché a volte, non capire è più faticoso che sapere la verità.
Parlammo con alcuni monaci. Nessuno diceva nulla di utile.
Ma tra le parole inutili, Guglielmo trovava spiragli.
“Il peccato non è nei libri,” disse a uno di loro. “Ma nella paura di leggerli.”
Fu allora che mi accorsi che non stavamo solo cercando un colpevole.
Stavamo lottando contro un’idea.
L’idea che il sapere debba avere un limite. Che la conoscenza sia pericolosa.
E forse lo è davvero.
Ma cos’altro resta, se non possiamo cercare?
Secondo giorno – Sesta (mezzogiorno)
(quando capisci che quello che cerchi è proprio dove ti è stato detto di non guardare)
Il sole era alto, ma sembrava non voler entrare nei corridoi dell’abbazia.
Era come se anche lui avesse rispetto per quel luogo. O timore.
E in effetti, quel giorno, qualcosa era cambiato.
Berengario era ancora scomparso.
La voce si stava spargendo, sottile ma tagliente.
Qualcuno mormorava che fosse fuggito.
Qualcun altro — quelli che parlavano meno, ma sapevano di più — lasciava intendere che non c’era più nulla da cercare.
Eppure, Guglielmo non si fermava.
Per lui, ogni assenza era una presenza che gridava.
Stava unendo puntini che io non vedevo. Ma sentivo.
Parlammo con il cellerario, con l’anziano Jorge, con altri monaci che avevano l’aria di voler essere altrove.
O di volerci altrove noi.
“Il sapere, come il cibo, va dosato,” ci disse uno di loro.
“Se troppo, può uccidere.”
Guglielmo si limitò a sorridere, con quel suo sorriso che non ti faceva mai capire se stavi parlando con un frate… o con un giudice.
Io ero stanco.
Confuso.
Ma anche terribilmente attratto da tutto questo.
Da quell’edificio che sembrava un codice. Da quei libri proibiti. Dalla biblioteca che nessuno voleva aprire, ma che tutti temevano.
Mi resi conto che non si trattava più solo di morti.
Si trattava di idee. Di parole.
Di qualcosa che vive nei libri… e che fa paura più della morte stessa.
Per un attimo, da lontano, vidi il volto di Malachia.
Lo sguardo teso, il passo rapido. Portava in mano qualcosa.
Un codice? Un messaggio? Un’istruzione?
Non lo seppi.
Ma vidi Guglielmo seguirlo con lo sguardo.
E per un attimo, sentii che stavamo entrando in qualcosa di molto più grande di noi.
L’abbazia aveva cominciato a reagire.
Come se stesse cercando di difendersi.
Ma da chi?
Dal peccato?
Dalla verità?
O da chi, come Guglielmo, stava cercando di aprire le finestre di una stanza chiusa da secoli?
Secondo giorno – Nona (pomeriggio)
(quando il mistero inizia a prendere forma… e non ti piace quello che vedi)
Il pomeriggio calava, ma non portava pace.
L’aria sembrava più pesante. Non per il caldo — che a novembre non esiste — ma per la sensazione che qualcosa si stesse muovendo sotto la superficie.
Avevamo appena finito di mangiare qualcosa di semplice, ma sentivo lo stomaco stretto. Non era fame quella che avevo.
Era ansia. Quella silenziosa, che ti cammina dentro e si finge lucidità.
Berengario non si era visto nemmeno quel giorno.
Le voci si rincorrevano.
Alcuni dicevano che si fosse nascosto. Altri che avesse fatto la fine di Adelmo.
Eppure, nessuno piangeva. Nessuno sembrava davvero colpito.
Come se le sparizioni facessero parte del paesaggio.
Guglielmo camminava come sempre, senza fretta, ma ogni passo era calcolato. Ogni parola che pronunciava, ogni domanda che poneva… era una leva messa al punto giusto per smuovere quello che gli altri volevano tenere sepolto.
“Adso,” mi disse, “le biblioteche non nascondono solo libri.
A volte custodiscono intere coscienze.”
Io non capivo del tutto.
Ma sentivo che aveva ragione.
Perché ogni volta che parlavamo della biblioteca, qualcuno cambiava discorso.
Come se fosse più di un luogo. Come se fosse un confine.
Nel pomeriggio interrogammo Severino, l’erborista.
Parlava di erbe, ma con lo sguardo di chi sa molto più di quanto dice.
Guglielmo lo ascoltava con attenzione, come si ascolta una canzone che conosci… ma stai cercando il significato nascosto.
“Ci sono veleni che non uccidono subito,” disse Severino.
“Ma lasciano tracce. Dentro e fuori.”
Parlava di piante. Ma non solo.
Io lo capii dopo.
Poi, verso sera, accadde qualcosa.
Berengario fu ritrovato.
Nudo. In una vasca. Morto.
Il suo volto… sembrava contorto, quasi sorpreso.
Le mani nere. Come se avesse toccato qualcosa che non doveva.
Il panico cominciò a strisciare tra i corridoi.
Ma lo si chiamava con altri nomi: “punizione”, “giudizio”, “mistero divino”.
Io invece avevo capito.
C’era qualcuno che uccideva.
E c’era qualcosa che stava uccidendo tutti, anche i vivi.
La paura.
Secondo giorno – Vespri (tramonto)
(quando il giorno finisce e capisci che anche la luce può mentire)
Il tramonto non era come gli altri.
Non era solo il sole che calava. Era il mondo intero che sembrava sgonfiarsi lentamente, come se anche lui fosse stanco, come se sapesse che non avrebbe retto ancora a lungo tutto quel peso.
Berengario era morto.
Non in battaglia. Non per una malattia.
Morto in silenzio, in un luogo di silenzio.
E questa volta, anche i monaci avevano smesso di fingere.
Guglielmo era più teso.
Non lo diceva, ma lo vedevi negli occhi.
Quel modo in cui guardava tutto, come se ogni ombra potesse raccontare qualcosa, come se ogni passo potesse nascondere una trappola.
“Due morti. Una biblioteca. Un libro. Un segreto.”
“Cosa li unisce?” gli chiesi.
“La domanda sbagliata,” rispose.
“Dovremmo chiederci: cosa li divide?”
Era così che ragionava.
Non cercava la verità come una cosa sola, definitiva.
La cercava nei dettagli che sfuggono, nei vuoti tra le parole.
E io lo ammiravo. Ma avevo anche paura.
Entrammo in chiesa per i Vespri.
La voce dei monaci era spezzata, tremolante. Il canto, che un tempo riempiva le volte con sicurezza, ora sembrava una preghiera fatta più per allontanare il male che per ringraziare Dio.
E io, lì in mezzo, non sapevo più cosa pensare.
La fede che avevo portato con me, da Melk fino a questa abbazia, stava cambiando forma.
Non scompariva. Ma si piegava.
Si contaminava di dubbi. Di ragione. Di umanità.
Dopo la funzione, Guglielmo volle tornare nella biblioteca.
La porta, però, era chiusa.
“Non possiamo entrare,” dissi.
“Allora dobbiamo trovare il modo di farlo,” rispose.
Lo disse come si dice una promessa. O una sfida.
La sera stava calando, e io avevo una strana certezza in petto:
che quella torre di pietra e silenzio fosse viva.
Che avesse visto tutto.
Che custodisse un libro che bruciava solo a guardarlo.
E che da lì in poi, niente sarebbe stato più come prima.
Secondo giorno – Compieta (notte)
(quando il buio non è assenza di luce, ma presenza di domande)
La notte era arrivata senza fare rumore.
Non c’erano stelle visibili, solo una luna pallida che sembrava restare lì, incerta, come se non volesse davvero assistere a quello che stava per succedere.
Dopo la Compieta, l’abbazia si era chiusa nel silenzio. Ma non in quello che ti dà pace.
Era un silenzio che scricchiolava.
Uno di quelli che sai che nasconde qualcosa, e più cerchi di ignorarlo, più lo senti.
Io ero sveglio. Guglielmo, naturalmente, lo era da tempo.
Aveva una lanterna spenta in mano e quello sguardo che ormai avevo imparato a riconoscere.
Quello sguardo che significa: “Stanotte andiamo dentro.”
Dentro la biblioteca.
Uscimmo dalle celle senza fare rumore.
Ogni passo sembrava un’eco nel cuore dell’abbazia, e io avevo la sensazione di violare qualcosa — non solo una regola, ma un equilibrio.
La porta era chiusa.
Ma Guglielmo aveva trovato il modo.
Un passaggio secondario. Un meccanismo. Un inganno della pietra.
Entrammo.
E quello che vidi…
Beh, non era solo una stanza piena di libri.
Era un labirinto. Vivo.
Un intreccio di corridoi, nicchie, scale, voci scomparse tra i secoli.
I libri erano ovunque. Ma non parlavano.
O meglio: parlavano solo a chi sapeva ascoltare.
Guglielmo si muoveva con calma. Io con il cuore in gola.
Non per la paura dei fantasmi o dei monaci. Ma perché sentivo che lì dentro si giocava qualcosa di più grande.
La verità, sì. Ma anche la libertà.
Perché in quel labirinto, ogni libro era una scelta.
Da leggere, da nascondere… o da uccidere.
Trovammo tracce. Di passaggi. Di letture proibite. Di presenze.
Forse anche di Berengario.
“Qualcuno ha cercato qualcosa. O qualcuno ha nascosto troppo bene,” sussurrò Guglielmo.
Io non risposi.
Guardavo le pareti, i titoli, le scritte.
Alcuni libri sembravano respirare.
E in quel momento, capii che non erano le parole il pericolo.
Il pericolo era l’idea che qualcuno potesse decidere quali parole meritavano di esistere.
Terzo giorno – Prima (l’alba)
(quando la luce arriva troppo presto e la mente è ancora dentro la notte)
Dormii poco. Forse un’ora, forse meno.
Mi rigiravo nel giaciglio come se il corpo volesse ancora riposare, ma la testa no.
La testa era rimasta lì, dentro la biblioteca.
Non avevo sognato.
Eppure, la notte mi sembrava ancora attaccata addosso.
Non il buio vero, ma quello che ti resta dentro quando hai visto più domande che risposte.
Quando aprii la porta della cella, fuori era già chiaro.
Una luce fredda, incerta. Di quelle che sembrano promettere una nuova giornata, ma senza troppa convinzione.
Guglielmo era sveglio, naturalmente.
Aveva già gli occhi su qualcosa. Forse un’idea. Forse un dubbio che gli faceva compagnia.
“Hai dormito?” mi chiese.
“Un po’,” risposi.
La verità è che ero rimasto sveglio a pensare ai libri. Ai corridoi. Alla sensazione che quella biblioteca non fosse solo un luogo, ma una prova.
Camminammo insieme fino al chiostro.
La nebbia sembrava trattenere le parole.
I monaci si muovevano come ombre affaticate, e per la prima volta mi accorsi che anche chi non aveva nulla da nascondere sembrava colpevole.
“Ogni cosa che viene nascosta,” disse Guglielmo, “prima o poi comincia a marcire.”
Non parlava solo dei libri.
Parlava della paura.
Di quella tensione che stava ormai crescendo come un’onda lenta, ma inarrestabile.
Il corpo di Berengario era stato spostato.
Già lavato, vestito, preparato per essere dimenticato.
Ma io continuavo a pensare alle sue dita scure, come se avesse toccato il male. O la verità.
E forse non c’era poi così tanta differenza.
Guglielmo osservava tutto. Le mani dietro la schiena, il mento basso.
Come se stesse mettendo insieme un puzzle che nessun altro sapeva nemmeno esistesse.
Io lo seguivo.
Ma cominciavo a capire che non stavo solo accompagnando un uomo più saggio di me.
Stavo entrando in una parte di me stesso che non conoscevo.
Quella che comincia a farsi domande sulle cose sbagliate.
Quella che smette di credere per abitudine, e inizia a scegliere cosa credere.
E in quel momento, l’alba non mi sembrò più un inizio.
Sembrava solo un altro passaggio verso qualcosa che non potevo più fermare.
Terzo giorno – Terza (mattino)
(quando tutto sembra uguale al giorno prima, ma niente lo è davvero)
Il sole si era alzato piano, come se anche lui avesse esitato a mostrarsi troppo presto.
E in effetti, c’era qualcosa in quel mattino che non voleva essere guardato in faccia.
Un’aria sottile, immobile, come prima di un temporale che nessuno osa nominare.
Camminavamo tra i chiostri, le mura fredde, i volti stanchi.
Ma non era stanchezza fisica quella che vedevo.
Era l’usura del dubbio.
La morte di Berengario aveva smosso qualcosa, e non solo tra i sospetti.
Qualcuno — forse più di uno — sapeva. Ma taceva.
E quello che non veniva detto pesava più delle parole pronunciate.
Guglielmo era più silenzioso del solito.
Lo seguivo mentre guardava le pareti come se fossero pagine da leggere.
Ogni volta che si fermava, io mi preparavo a una domanda.
Ma non arrivava.
Quel silenzio era già la risposta.
Entrammo in scriptorium.
Lì dove si copiavano i libri.
Lì dove le parole prendevano corpo, ma ora sembravano soffocate sotto strati di paura.
Mentre osservavamo, vidi Jorge — il monaco cieco — seduto, immobile, quasi assente.
Ma anche i ciechi, se sanno ascoltare, vedono meglio degli altri.
Guglielmo si avvicinò a Malachia, il bibliotecario.
Uno scambio breve. Teso.
Le frasi usate come recinti: giuste, ma costruite per non lasciar passare nulla.
“La biblioteca è un luogo sacro,” disse Malachia.
“Lo è anche la verità,” rispose Guglielmo.
“Ma a volte fa più paura di un libro proibito.”
Io li guardavo, ma non riuscivo più a capire chi difendesse cosa.
La fede? Il sapere? Il silenzio?
Quello che capivo era che la biblioteca aveva le sue regole.
E chi le violava… spariva.
Ma non nel nulla.
Nel mistero.
Fu allora che Guglielmo mi mostrò una mappa.
Disegnata a mano, approssimativa, incompleta.
“Credo che la biblioteca sia costruita come un labirinto.
E ogni zona… potrebbe avere un codice.”
“Un codice?” chiesi.
“Un sistema. Una mente.”
In quel momento, la biblioteca smise di essere un luogo.
E divenne un enigma.
Uno vivo.
E io, per la prima volta, ebbi paura non solo di ciò che potevamo scoprire.
Ma di ciò che la verità avrebbe fatto di noi, una volta trovata.
Terzo giorno – Sesta (mezzogiorno)
(quando il mistero comincia a spiegarsi… e tu cominci a non volerlo più sapere)
Era mezzogiorno, e il sole sembrava voler risplendere più del solito, come per smentire tutta quella oscurità.
Ma la luce, quando è troppa, non rivela: acceca.
La giornata sembrava normale, almeno per chi voleva far finta che tutto andasse avanti. I monaci seguivano i loro ritmi, come sempre.
Ma sotto le tuniche, sotto le parole, si percepiva la tensione di chi si è accorto che qualcosa si sta rompendo.
Io camminavo accanto a Guglielmo, in silenzio.
Certe volte sentivo che parlargli era inutile.
Non perché non mi avrebbe risposto — ma perché stava già parlando con ciò che osservava.
Quella mattina aveva iniziato a mettere insieme una teoria.
Una mappa mentale, fatta di logica, simboli e intuizione.
“Ogni ala della biblioteca è organizzata con una lettera,” mi disse.
“Ogni stanza corrisponde a un libro. E ogni libro... a una scelta.”
“E allora?” chiesi.
“Allora qualcuno sta usando questa struttura per nascondere. O per difendere.
Ma da cosa? O da chi?”
Non avevo risposte.
Solo la sensazione che ogni passo che facevamo ci portasse più vicini a un punto di non ritorno.
Andammo a parlare con Severino, l’erborista.
Tra le erbe essiccate e gli scaffali di vetro, c’era un odore dolciastro che mi metteva a disagio.
Severino era gentile, ma si vedeva che era nervoso.
Ci mostrò degli oggetti trovati vicino alla vasca dove era stato ritrovato Berengario.
Un guanto. Tracce di una sostanza.
Nulla di certo. Ma troppi indizi che non parlavano per caso.
“Forse qualcuno ha toccato un libro... trattato,” disse.
“Un veleno tra le pagine. Invisibile. Silenzioso.”
Io lo guardavo e pensavo:
è possibile che un libro uccida? Che leggere possa essere un atto mortale?
E poi mi risposi: sì.
Perché ci sono idee che tolgono il fiato.
Ci sono parole che, una volta lette, non puoi più dimenticare.
E forse è proprio questo che qualcuno voleva evitare.
La biblioteca, allora, non era solo un luogo chiuso.
Era una trappola.
Un tempio.
Un'arma.
E più la logica di Guglielmo costruiva ordine, più io sentivo che qualcosa — qualcosa di profondo — non poteva essere risolto con la ragione.
Terzo giorno – Nona (pomeriggio)
(quando il mistero è così vicino da poterne sentire l’odore)
Il pomeriggio sembrava innocente.
Cielo limpido, vento leggero, il suono dei passi sul selciato che si perdeva tra le arcate del chiostro.
Ma io ormai avevo capito: l’abbazia mentiva anche col sole.
Guglielmo camminava come se stesse seguendo una melodia che solo lui poteva sentire.
Una dopo l’altra, le sue intuizioni si facevano più chiare.
Ma la chiarezza — scoprii — non sempre è una consolazione.
“Adso,” mi disse, mentre osservava i muri della biblioteca,
“pensa a un labirinto costruito non per confondere, ma per proteggere.
E a qualcuno che ha deciso che la conoscenza deve morire con lui.”
Quella frase mi rimase addosso come polvere.
La biblioteca non era solo un luogo sacro.
Era una prigione per un’idea.
E qualcuno aveva cominciato a uccidere per mantenerla chiusa.
Ci recammo da Severino di nuovo.
Qualcosa nei suoi occhi era cambiato.
Come se avesse scoperto troppo.
Come se sapesse di non poterlo più ignorare.
Poco dopo… lo trovammo a terra.
Morto.
Il suo corpo rigido, lo sguardo ancora aperto.
Come se l’ultimo pensiero fosse stato: “L’ho capito, ma troppo tardi.”
Accanto a lui: una boccetta rotta, forse un’ampolla di vetro.
E un oggetto mancante.
Un libro. O qualcosa che sembrava esserlo.
“Tre morti,” sussurrò Guglielmo.
“Tutti legati alla biblioteca. Tutti legati… a un libro.”
Io non dissi nulla.
Ero scosso. Non dalla morte.
Ma dalla lucidità con cui si era manifestata.
Come se fosse parte di un piano, non una reazione.
Come se qualcuno stesse scrivendo una storia con il sangue degli altri.
In quel momento, provai una cosa nuova.
Non era solo paura.
Era la consapevolezza che stavamo camminando su un filo.
E che quello che cercavamo… poteva uccidere anche noi.
Il pomeriggio era quasi finito.
Ma io non mi sentivo più lo stesso.
Cercare la verità, avevo capito, era come toccare una ferita: fa male, ma solo così puoi capire quanto è profonda.
Terzo giorno – Vespri (tramonto)
(quando cominci a vedere, ma ciò che vedi non ti piace affatto)
Il tramonto scese lentamente, come uno che sa che, quando arriva, niente sarà più come prima.
C’erano silenzi diversi, in abbazia.
Quello della preghiera, quello della meditazione… e poi quello del sospetto.
E quel giorno, quel silenzio era ovunque.
Tre morti.
Tutti collegati.
Tutti con qualcosa da dire, e nessuno che avesse fatto in tempo a parlare.
Guglielmo era teso.
Lo vedevo nei gesti, più rapidi.
Nel tono della voce, più diretto.
Nello sguardo che, per la prima volta, sembrava quasi triste.
Come se cominciasse a rendersi conto che sapere non sempre salva. A volte condanna.
Il vespro cominciò, e i canti risuonarono tra le pareti di pietra come lamenti eleganti.
Tutti sembravano a posto. Tutti sembravano devoti.
Ma era solo scena.
“Guarda bene, Adso,” mi disse.
“Chi è troppo tranquillo… o è innocente, o è colpevole da tempo.”
Io fissavo i volti.
Uno ad uno.
Malachia, sempre più chiuso in se stesso.
Jorge, il vecchio cieco che parlava solo per ammonire.
Ubertino, che pareva sentire presagi ovunque.
E poi c’erano quelli che tacevano.
I più pericolosi.
Dopo il vespro, Guglielmo mi portò nella sua cella.
Tirò fuori un foglio. Un disegno.
Una pianta.
La pianta della biblioteca.
“Credo di aver capito come è costruita. Ma non basta.
C’è un messaggio, un gioco, un codice...
Una volontà dietro.
Come se la biblioteca fosse stata progettata non per conservare sapere,
ma per proteggerlo da chi vuole troppa verità.”
Stavo per dire qualcosa, ma mi fermai.
Perché capii che stavamo entrando in una zona dove non c’era più spazio per le parole giuste.
Solo per quelle vere.
E forse era proprio quella, la verità che faceva paura.
Il sole calava.
E io avevo addosso la sensazione che qualcuno, da qualche parte, avesse appena deciso che era arrivato il momento… di colpire ancora.
Terzo giorno – Compieta (notte)
(quando la notte arriva, e tu capisci che il buio non è fuori… è dentro)
Il canto della Compieta si alzò lento, ma meno solenne del solito.
Come se anche la fede, quella sera, avesse bisogno di sedersi un momento a riprendere fiato.
Tutti sembravano pregare.
Ma gli occhi — quelli veri, quelli che dicono più delle labbra — erano altrove.
Ogni monaco portava in volto una domanda che non osava formulare.
Chi sarà il prossimo?
Io, in silenzio, seguivo i movimenti del coro, ma la testa era lontana.
Rivedevo i gesti di Severino, le mani di Berengario, il corpo di Adelmo.
E sentivo che stavamo entrando in qualcosa da cui non si può più tornare come prima.
Usciti dalla funzione, Guglielmo mi parlò con voce bassa.
Aveva gli occhi accesi, lucidi. Non per l’emozione.
Perché stava vedendo.
“Stanotte si entra di nuovo.”
“Nella biblioteca?”
“Sì.
C’è qualcosa in quella sezione interdetta.
Un libro.
Uno solo.
Che vale più di mille bugie.”
Non risposi.
E non per paura.
Ma perché cominciavo a capire cosa stava succedendo.
C’erano parole che non dovevano essere lette.
E qualcuno stava uccidendo per proteggerle.
Entrammo nella biblioteca come si entra in una mente pericolosa: piano, attenti, senza dare nell’occhio.
Il labirinto era lo stesso.
Ma io no.
Io ero cambiato.
Adesso sapevo cosa cercavamo.
E soprattutto, sapevo che poteva uccidere.
Guglielmo avanzava tra scaffali e nicchie come un uomo che ha visto l’inferno e vuole solo capire come è fatto.
Io lo seguivo, ma ogni tanto mi fermavo.
A guardare. A sentire.
C’era un odore nell’aria.
Un odore sottile. Di polvere, di tempo, di verità repressa.
Poi, un rumore.
Un’ombra.
Un passaggio nascosto.
Un’altra trappola.
“Qualcuno ci sta precedendo,” disse Guglielmo.
“O ci sta aspettando.”
E io, per la prima volta, pensai che forse la verità non voleva essere trovata.
Che forse il libro non era pericoloso per ciò che diceva…
…ma per ciò che faceva accadere nelle persone che avevano il coraggio di leggerlo.
Quarto giorno – Prima (l’alba)
(quando il giorno ricomincia, ma tu non sei più lo stesso)
Mi svegliai ancora prima del canto, con quella strana sensazione di essere già stato sveglio tutta la notte.
Forse lo ero stato davvero, in fondo.
Non con il corpo, ma con tutto il resto.
La biblioteca ci aveva lasciati andare… ma non ci aveva lasciati indenni.
Avevamo visto stanze nuove, corridoi mai percorsi, e la conferma che qualcuno si muoveva lì dentro senza essere visto.
Come un pensiero ossessivo che non riesci a scacciare, nemmeno con la preghiera.
L’alba arrivava pallida, opaca, senza convinzione.
Sembrava un giorno che si alzava per dovere, non per voglia.
L’abbazia era silenziosa, ma di un silenzio diverso.
Non quello del sonno, ma quello dell’attesa.
Guglielmo era già sveglio, ovviamente.
Lo trovai seduto, assorto.
Davanti a lui, alcuni appunti, delle lettere greche, e il disegno di un labirinto sempre più definito.
“Qualcuno ci precede in ogni mossa, Adso,” disse.
“È come se conoscesse il disegno meglio di me.
O come se fosse lui ad averlo tracciato.”
Io mi sedetti accanto a lui senza parlare.
Era la prima volta che lo vedevo stanco. Non nel corpo, ma nell’anima.
Come se trovare la verità non fosse più una missione, ma una guerra.
E ogni nuova scoperta… una perdita.
Fuori, i monaci cominciavano a muoversi, ma con un’aria diversa.
Più cupi. Più guardinghi.
La morte aveva colpito troppo spesso.
E la fede — anche quella più solida — cominciava a vacillare.
Io guardavo le pietre umide del chiostro e pensavo:
cosa c’è in un libro che può far paura più di mille spade?
Cosa può esserci scritto tra due pagine perché qualcuno sia disposto a uccidere?
Ma forse, la vera domanda era un’altra:
non cosa c’era scritto…
ma perché non dovevamo leggerlo.
E proprio mentre il sole cominciava a superare il bordo delle montagne, Guglielmo si alzò.
“Oggi entriamo di nuovo,” disse.
“E stavolta… non usciamo senza il libro.”
Quarto giorno – Terza (mattino)
(quando i pezzi cominciano a combaciare… e tu cominci a tremare)
Il mattino aveva l’aria tagliente, come se anche l’aria avesse qualcosa da dire.
Le ombre erano ancora lì, ma più corte, più definite.
Come le domande che da giorni giravano in tondo nella mente di Guglielmo… e nella mia.
Ci recammo subito alla biblioteca.
Non dentro — non ancora — ma attorno.
Guglielmo osservava le mura come se fossero pelle.
Ogni pietra, una cicatrice.
Ogni finestra, un’occhiata trattenuta.
“Ci sono sette torri,” disse.
“Sette come i giorni, come i sigilli, come i peccati.
Ogni sezione è un enigma. Ogni direzione, una lettera.”
Io annuivo, ma sentivo che quella mappa che si andava formando nella sua testa non era fatta solo di logica.
Era fatta di intuizione. Di memoria. Di dolore.
Ci spostammo poi nello scriptorium.
Lì, come sempre, tutto sembrava uguale: penne che scrivevano, occhi bassi, parole copiate.
Ma dietro quella routine c’era il silenzio sporco del sospetto.
Trovammo Malachia, il bibliotecario.
Aveva un volto tirato, nervoso.
Guglielmo gli parlò con la calma di chi sa di star toccando un punto fragile.
“Berengario sapeva,” disse Guglielmo.
“E anche Severino.
Ora sono morti.
Lei custodisce qualcosa.
Non vuole proteggerlo.
Vuole nasconderlo.”
Malachia non rispose.
Ma i suoi occhi fecero un passo indietro.
Poi fu la volta di Jorge.
Il vecchio cieco, che sembrava sempre parlare per ammonire, ora parlava per negare.
Negava l’accesso. Negava il pericolo.
Ma soprattutto, negava che la conoscenza potesse essere libera.
“Alcuni libri non devono essere letti,” disse.
“Perché alcuni risi… possono uccidere la fede.”
E io, che avevo sempre pensato che il sapere fosse luce, cominciavo a capire che per alcuni è una minaccia.
Guglielmo uscì dal scriptorium pensieroso.
“Abbiamo quasi tutto,” mi disse.
“Ci manca solo l’ultimo passaggio.
Capire chi guida il gioco.
E perché.”
Il sole era alto. Ma io, sotto quella luce piena, sentivo più freddo che mai.
Perché stavamo arrivando alla fine.
E cominciavo a chiedermi se avremmo saputo reggere la verità, una volta trovata.
Quarto giorno – Sesta (mezzogiorno)
(quando ti accorgi che stai per arrivare… ma non sai se sei pronto a farlo)
Era mezzogiorno, ma la luce non bastava a scaldare.
Non fuori — dentro.
Avevamo raccolto indizi, decifrato tracce, parlato con uomini che usavano la fede come scudo e il silenzio come spada.
E ora, Guglielmo era a un passo.
Dal libro.
Dal colpevole.
Da qualcosa che non avrebbe più potuto essere ignorato.
Tornammo da Severino. O meglio, nella sua spezieria.
Il luogo era vuoto, freddo, ma ancora intriso dell’odore delle sue mani: erbe, resine, inchiostri, misteri.
Guglielmo cercava un dettaglio, una prova che mancava.
Come se avesse già capito tutto… ma volesse una conferma.
“Il libro è lì,” disse.
“O lo era. Passato di mano in mano, con la precisione di chi sa cosa fa.
Berengario lo ha preso. Poi Severino. Ora è sparito di nuovo.
E ogni volta che appare… qualcuno muore.”
Io lo ascoltavo in silenzio, ma dentro di me una voce più giovane, più insicura, chiedeva ancora se davvero valesse la pena sapere.
Perché quello che stavamo cercando non era solo un oggetto.
Era un’idea.
Un frammento di libertà travestito da pericolo.
Un pensiero che rideva della paura.
Guglielmo mi guardò, come se avesse sentito quello che pensavo.
“Ci sono libri scritti per essere letti.
E altri… scritti per essere nascosti.
Ma a volte il vero potere non è in ciò che il libro dice.
È nel fatto che qualcuno, da secoli, tenta di impedirti di leggerlo.”
Uscimmo.
Il chiostro era vuoto, ma non calmo.
Ogni angolo sembrava osservare.
Ogni finestra, trattenere il respiro.
Io mi sentivo in un punto strano: tra l’orgoglio di arrivare in fondo e la paura che l’arrivo rovinasse tutto.
Perché quando cerchi la verità, immagini un lampo che illumina tutto.
Ma a volte è solo una crepa.
Da cui entra una luce sottile… abbastanza per vedere quanto tutto fosse più fragile di quanto credevi.
Quarto giorno – Nona (pomeriggio)
(quando senti che la fine si avvicina, ma non sai se ti porterà sollievo o rovina)
Il pomeriggio era iniziato con una strana calma.
Una quiete sospetta. Come quando tutto tace non perché si è placato… ma perché sta per esplodere.
Guglielmo camminava più veloce del solito.
Aveva in mano appunti, segni, intuizioni.
Il suo pensiero si muoveva come una fiamma che non sai se scotta o scalda.
E io gli correvo dietro — non con le gambe, con la testa. Con il cuore.
Era tutto più chiaro.
La biblioteca era il centro.
Il libro, l’arma.
Chi lo maneggiava, il burattinaio.
Ma mancava ancora un volto.
Un nome.
Tornammo nello scriptorium.
Il sole entrava obliquo, toccando i tavoli, le pergamene, le mani dei monaci come un giudizio silenzioso.
Jorge era lì.
Malachia anche.
Entrambi immobili, immobili come le colonne.
Ma dentro… si muovevano.
“Tutto gira intorno al riso,” sussurrò Guglielmo.
“A un libro che fa ridere. E che, per questo, qualcuno ha deciso di cancellare dal mondo.”
Risi?
In un’abbazia dove ogni sorriso sembrava peccato?
Un libro che spezza la serietà… e per questo uccide?
Mi sembrava impossibile.
Ma in fondo, non è forse il riso l’arma più sottile che abbiamo contro il potere?
Chi sa ridere non si piega.
Chi fa ridere… diventa pericoloso.
E allora capii.
Non era un semplice libro.
Era una minaccia all’ordine.
Alla verità ufficiale.
Alla paura.
A un certo punto, Malachia si alzò di scatto.
Uscì dalla sala con gli occhi bassi e il passo scomposto.
Guglielmo lo seguì con lo sguardo.
E mi disse solo due parole:
“Sta per succedere.”
Io lo seguii in silenzio, con quella sensazione nella pancia che hai quando qualcosa finisce… ma non sai ancora se finirà bene.
Perché sì, stavamo arrivando al centro del labirinto.
Ma chi tocca il cuore delle cose, spesso scopre che brucia.
Quarto giorno – Vespri (tramonto)
(quando capisci che la verità non ha bisogno di urla… ma sa farti tremare lo stesso)
Il tramonto arrivò come sempre.
Ma niente, quel giorno, era davvero “come sempre”.
La luce calava lenta, dorata e ingannevole.
Sbatteva sulle pietre, accarezzava i volti, ma non scaldava più nulla.
Era bellezza stanca, come un attore che recita il finale anche se sa che il pubblico ha già capito tutto.
Malachia non si era più visto.
Da ore.
Guglielmo sapeva. Lo leggevo nei suoi occhi.
Quel sapere che pesa, più di un corpo, più di un libro.
Io lo seguivo, ancora. Ma qualcosa in me era cambiato.
Forse era la consapevolezza che stavamo smettendo di investigare…
e cominciando a giudicare.
Il vespro risuonava tra le arcate, le voci come candele pronte a spegnersi.
Tutti sembravano più piccoli.
O forse ero io che, vedendo tutto, li vedevo finalmente per quello che erano.
Poi… il grido.
Un urlo spezzato, di quelli che non sai se è dolore o liberazione.
Malachia.
Trovato a terra.
Morto.
Il volto contratto, il corpo accartocciato come carta bagnata.
In mano, stringeva un libro.
O meglio, quello che ne restava.
Le dita nere.
Le labbra gonfie.
Il veleno. Sempre lui. Sempre lo stesso.
Guglielmo si avvicinò, e sembrava più dispiaciuto che sorpreso.
“Ci ha provato,” disse piano.
“Non ha resistito. Ha ceduto al desiderio.
E il libro… ha preteso il suo prezzo.”
Quel libro — quello che faceva ridere — era stato toccato da chi non doveva.
E il sapere, ancora una volta, aveva chiesto un sacrificio.
Io guardavo quel corpo e mi chiedevo se valesse la pena.
Se davvero si può morire per un’idea.
Per una parola.
Per una risata.
Ma poi guardai Guglielmo.
E capii.
Non era solo per il libro.
Era per la libertà di cercarlo.
E allora pensai che forse, sì.
Certe verità uccidono.
Ma il silenzio… uccide tutti.
Quarto giorno – Compieta (notte)
(quando la notte cala e ti rendi conto che certe risposte fanno più male delle domande)
Quella sera, il canto della Compieta fu più lento del solito.
Come se anche la fede stesse trattenendo il respiro.
Come se ogni voce, ogni sillaba, sapesse che non ci sarebbe stata un’altra notte uguale a questa.
Io non cantavo.
Ascoltavo.
E più ascoltavo, più mi rendevo conto che la voce che sentivo più forte era dentro di me.
Era la voce della coscienza.
Della paura.
Della consapevolezza che stavamo toccando qualcosa di troppo vicino al fuoco.
Malachia era morto.
Anche lui.
Uno dopo l’altro, come in un gioco crudele dove ogni pedina cade appena sfiora la verità.
E quel libro…
quel maledetto libro, aveva ucciso ancora.
Guglielmo era chiuso in un silenzio che non avevo mai visto prima.
Non era il silenzio della riflessione.
Era quello di chi comincia a sentire il peso della verità.
E non sa se potrà reggerla.
“Il libro è protetto da un veleno,” disse infine.
“È un libro che fa ridere. Un’opera di Aristotele.
E Jorge… Jorge lo ha nascosto.
Perché per lui il riso è pericoloso.
Perché un uomo che ride… è un uomo che non teme.
E un uomo che non teme… non obbedisce.”
Quelle parole mi scavarono dentro.
Per la prima volta, capii che non era solo una questione di omicidi.
Era una guerra invisibile.
Tra chi crede che sapere liberi…
e chi crede che sapere corrompa.
La biblioteca non era solo un labirinto di libri.
Era un campo di battaglia.
E noi ci eravamo addentrati senza armi.
Guglielmo mi guardò.
Aveva lo sguardo stanco.
Ma anche lucido.
“Stanotte entreremo di nuovo.
E se saremo fortunati… usciremo con la verità.
Se non lo saremo… con la coscienza pulita.”
Io annuii.
Non sapevo se volevo sapere tutto.
Ma sapevo che non potevo più tirarmi indietro.
La notte calava.
E con lei, l’ultima parte del viaggio stava per cominciare.
Quinto giorno – Prima (l’alba)
(quando la luce arriva, ma illumina solo quello che è già stato perduto)
Mi svegliai prima del canto, ancora.
Non per abitudine, ma per inquietudine.
Dormire era diventato impossibile.
Non per paura della morte…
ma per la consapevolezza che la verità che cercavamo era viva. E ci stava osservando.
Fuori, l’alba stava appena schiarendo l’aria.
Una luce pallida, debole, che sembrava più un ricordo del giorno che una sua promessa.
Guglielmo era già sveglio.
Sempre.
Stava finendo di scrivere qualcosa.
Appunti, segni, forse un’altra delle sue mappe interiori.
“Ci siamo, Adso,” mi disse senza alzare lo sguardo.
“Oggi finisce tutto.
O comincia per davvero.”
Non gli risposi.
Perché sapevo che aveva ragione.
Non era più tempo di domande.
Ora servivano scelte.
Tornammo al chiostro.
Lì, il silenzio era diverso.
Non più d’attesa.
Di rassegnazione.
Il corpo di Malachia era stato sistemato con cura.
Come se, in mezzo a tutto quel terrore, l’unico gesto che restasse umano fosse dare pace ai morti.
Guglielmo lo guardò un lungo momento.
Poi disse:
“Ha cercato il sapere. Ma lo ha fatto per obbedienza.
E alla fine… lo ha pagato.
Ma non era lui il burattinaio.”
Quel giorno saremmo entrati di nuovo.
Ma non più come prima.
Non da cercatori.
Da sfidanti.
Perché chi stava dietro tutto questo aveva scelto il silenzio come religione.
L’ignoranza come protezione.
Il riso come eresia.
E Guglielmo, in fondo, stava cercando di salvare qualcosa che non si poteva più salvare.
Non un libro.
Non un uomo.
La possibilità che sapere non fosse un crimine.
Io, a quel punto, non avevo più paura.
Solo una domanda che mi teneva stretto:
Cosa succede a chi legge fino in fondo un libro che tutti vogliono far sparire?
E dentro quella domanda… sapevo che c’era già la risposta.
Quinto giorno – Terza (mattino)
(quando il mistero si mostra… ma non come te lo aspettavi)
Il mattino sembrava uguale a tutti gli altri.
Luce fredda, silenzi tesi, passi lenti tra corridoi che ormai conoscevamo a memoria.
Eppure, era diverso.
Lo sentivo nel modo in cui Guglielmo camminava.
Nel modo in cui non diceva nulla.
Oggi non stavamo più cercando.
Oggi stavamo andando a chiudere.
Ci muovemmo verso la biblioteca.
Guglielmo con passo deciso, io con il cuore che batteva troppo forte per il silenzio che c’era intorno.
Salimmo. Attraversammo.
Il labirinto, ormai, ci conosceva.
E noi conoscevamo lui.
Arrivammo nel punto giusto.
Quella stanza, quella parete mobile, quella sezione dove il libro proibito veniva nascosto come un peccato.
E lì… c’era Jorge.
Seduto. Immobile. Ma non sorpreso.
“È finita,” disse Guglielmo.
“Lo sapevo che eri tu.
Non hai ucciso con le mani. Hai usato il sapere.
Un libro avvelenato. La paura come dottrina.
E la fede come giustificazione.”
Jorge non negò.
Non ne aveva bisogno.
Perché per lui non era un crimine. Era una missione.
“Il riso è la morte della serietà.
E la serietà è il fondamento della fede,” disse.
“Quel libro doveva sparire.
Era troppo. Troppo pericoloso.
Faceva ridere dell’ordine, della legge, di Dio.”
E lì capii.
Non era pazzia. Era lucidità spietata.
Guglielmo cercò di prenderlo.
Ma Jorge fu più veloce.
Ingoiò le pagine. Quelle velenose. Quelle finali.
E così, si uccise con la stessa verità che aveva cercato di nascondere.
Il libro cadde.
Bruciato. Sfigurato. Distrutto.
Io lo guardai andare in fumo e pensai:
"Tutto questo… per un’idea."
E per la prima volta, non seppi se essere triste o sollevato.
La verità era emersa.
Ma non aveva salvato nessuno.
Guglielmo si voltò verso di me.
Aveva gli occhi lucidi. Non per la morte.
Per quello che non siamo mai pronti a sapere.
“Abbiamo trovato quello che cercavamo,” disse.
“Ma quello che ci resta… è solo il dubbio se valesse davvero la pena.”
Quinto giorno – Sesta (mezzogiorno)
(quando la verità si svela… e niente resta in piedi come prima)
Era mezzogiorno, ma sembrava notte.
Il cielo si era coperto. Non di nuvole, ma di silenzio.
Di quelli che arrivano dopo che tutto è successo.
Quando non c’è più niente da dire.
Eravamo scesi dalla biblioteca con il corpo di Jorge e le mani vuote.
Il libro — quello che aveva scatenato tutto — ormai non esisteva più.
Era cenere.
Era idea.
Era una storia che nessuno avrebbe potuto più leggere… ma che avrebbe continuato a farsi sentire.
Guglielmo era silenzioso.
Aveva smesso di ragionare a voce alta, di formulare teorie.
Aveva solo lo sguardo di chi ha capito troppo.
Ci sedemmo nel chiostro.
L’aria era immobile, e per un attimo non sembrava più un’abbazia, ma un luogo abbandonato dal tempo.
I passi dei monaci erano lenti.
Forse per rispetto.
Forse per paura.
“Il sapere è stato difeso con la morte,” disse Guglielmo, finalmente.
“Eppure… non era il sapere a essere pericoloso.
Era la paura di perderne il controllo.”
Io ascoltavo, ma avevo la testa piena.
Troppa verità.
Troppa ingiustizia.
E un senso di impotenza che non sapevo dove mettere.
Avevamo trovato il colpevole.
Svelato il mistero.
Ma niente sembrava vinto.
Il libro era sparito.
Il sapere era sfuggito.
E la fede — quella dei giusti, quella che cerca senza uccidere — era rimasta sola a fare i conti con le macerie.
“Abbiamo risolto il caso?” chiesi.
Guglielmo scosse la testa.
“Abbiamo solo visto com’è fragile tutto quello in cui crediamo.”
Il sole filtrava a pezzi tra le colonne.
Ma non riusciva a scaldare.
Come una carezza in ritardo.
E io, dentro, sentivo che stava finendo qualcosa.
Ma non era solo un’indagine.
Era un pezzo della mia innocenza.
Quinto giorno – Nona (pomeriggio)
(quando il fuoco arriva… e capisci che certi finali non si possono scrivere diversamente)
Il pomeriggio sembrava quieto.
Troppo.
Quella quiete strana che precede solo due cose: un temporale… o una fine.
C’era qualcosa nell’aria.
Un silenzio carico, una vibrazione leggera sotto i piedi, come se l’abbazia stessa sapesse che stava per accadere qualcosa di irreversibile.
Guglielmo era tornato nella biblioteca.
Per l’ultima volta.
Io lo seguii.
Come sempre.
Ma con una sensazione addosso diversa.
Non quella di entrare in un mistero.
Quella di dover dire addio.
Ci muovemmo tra gli scaffali come se camminassimo in un corpo malato.
Le pareti, i corridoi, i libri... tutto sembrava sul punto di cedere.
Guglielmo cercava ancora.
Forse per capire.
Forse per salvare almeno una parte di quel sapere che ci aveva condotti fin lì.
Ma fu inutile.
Un rumore.
Uno scricchiolio.
Poi l’odore.
Fumo.
Le fiamme non arrivarono con violenza.
Arrivarono con lentezza, con metodo.
Come chi ha tutta l’intenzione di distruggere non solo un luogo, ma un’idea.
La biblioteca prese fuoco.
E con lei, tutto ciò che conteneva.
Le opere. Le mappe. I testi antichi. I segreti.
Il libro proibito.
Tutto.
Guglielmo cercava di spegnere, di salvare, di lanciare volumi fuori dalle fiamme.
Io l’aiutavo, in un gesto disperato e inutile.
Ma ogni tentativo sembrava arrivare sempre un secondo troppo tardi.
“Brucia tutto…” disse a un certo punto, esausto.
“E con esso… il desiderio di controllare ciò che gli uomini devono sapere.”
Era finita.
In fiamme.
Non il male.
La memoria.
E io, tra le ceneri, capii una cosa che non avrei più dimenticato:
non tutto ciò che perdi si può sostituire.
E non tutto ciò che brucia… era destinato a durare.
Quinto giorno – Vespri (tramonto)
(quando tutto tace… e tu ti accorgi di essere diventato un altro)
Il sole stava calando.
Ma non con la solennità dei giorni normali.
Quel tramonto era stanco.
Spento.
Come dopo un funerale.
L’abbazia era avvolta da un odore che non dimenticherò mai.
Cenere.
Legno bruciato.
Carta sparita per sempre.
La biblioteca era ormai uno scheletro annerito, ancora fumante.
Eppure, anche così, faceva paura.
Forse perché non era morta del tutto.
Era stata cancellata.
Guglielmo non diceva nulla.
Lo guardavo, e per la prima volta sembrava vecchio davvero.
Non per gli anni.
Per il peso.
Aveva provato a salvare qualcosa.
E non ci era riuscito.
“Avevano ragione loro,” sussurrò.
“Se non puoi controllare una verità… meglio distruggerla.”
Io lo ascoltavo, ma avevo la testa altrove.
A quei libri. A quelle parole. A quei pensieri che nessuno leggerà più.
Non solo testi antichi.
Umanità, andata in fumo.
I monaci vagavano per i cortili come fantasmi.
Persi.
Vuoti.
Forse in colpa.
Forse ancora convinti che tutto fosse parte del disegno di Dio.
Ma io non lo pensavo più.
“Abbiamo vinto?” gli chiesi.
“No,” rispose.
“Abbiamo capito.
Che non sempre la verità trionfa.
Ma almeno… sappiamo com’era fatta.”
E lì capii che quella era la vittoria più grande che potevamo permetterci.
Il vespro si levò debole, tra voci fioche e occhi bassi.
Ma io, dentro, cantavo un’altra preghiera.
Una fatta di dubbi.
Di dolore.
E di libertà.
Perché, alla fine, non era il libro che andava salvato.
Era il diritto di cercarlo.
Quinto giorno – Compieta (notte)
(quando la notte arriva… e tu non hai più niente da chiedere, solo da ricordare)
Fu una notte stranamente quieta.
Nessuno parlava.
Nemmeno il vento.
Il canto della Compieta si alzò come sempre, ma sembrava venire da un altro mondo.
Come se, dopo tutto quello che era successo, anche la preghiera avesse perso la strada.
Io non cantavo.
E nemmeno Guglielmo.
Ci sedemmo in fondo alla chiesa, più come spettatori che come fedeli.
I nostri occhi avevano visto troppo.
E nessuna litania avrebbe lavato via la cenere che portavamo dentro.
“Domani ce ne andremo,” mi disse piano.
“Qui non resta più nulla da salvare.”
Annuii.
Perché era vero.
L’abbazia non era più un luogo sacro.
Era un luogo bruciato. Un’idea perduta.
Eppure…
qualcosa ci aveva segnati per sempre.
Non sapevo ancora come.
Ma sentivo che non sarei più stato lo stesso.
Guglielmo era chino.
Pensava, come sempre.
Ma stavolta non cercava.
Stava lasciando andare.
Lo guardai a lungo.
Era stato maestro, guida, amico.
E anche lui, adesso, sembrava più fragile.
Non nella mente.
Nell’anima.
Dopo la preghiera, tornai nella mia cella.
Spoglia, silenziosa, fredda.
Mi sedetti sul letto, ma non riuscii a chiudere gli occhi.
Dentro di me, la notte non era ancora scesa.
Pensavo a tutto quello che avevamo visto.
A ogni parola letta.
A ogni verità toccata.
A ogni fiamma accesa.
E poi, pensavo a quella risata perduta.
A quel libro che nessuno leggerà più.
E in mezzo al buio, capii una cosa.
Cercare la verità non è mai un errore.
Anche quando la perdi.
Anche quando ti brucia le mani.
Perché nel cercarla… sei diventato qualcuno.
E forse, proprio per questo,
tutta quella sofferenza
aveva avuto un senso.
Epilogo
(quando la vita va avanti… ma qualcosa in te resta fermo in quei giorni)
Sono passati tanti anni.
Troppi per contarli davvero.
Eppure… a volte mi sveglio e ho ancora l’odore della biblioteca bruciata nel naso.
Il rumore delle fiamme nelle orecchie.
La voce di Guglielmo nella testa.
Scrivo queste pagine ormai vecchio, con le mani che tremano e la memoria che ogni tanto sfugge.
Ma quei giorni… quelli non li ho mai dimenticati.
Non ho più rivisto Guglielmo dopo il nostro viaggio di ritorno.
Ci separammo con poche parole.
Lui tornò alla sua vita da pensatore errante.
Io alla mia vocazione.
Non ci fu un addio solenne.
Solo uno sguardo.
Uno di quelli che dice tutto:
“Hai visto.
Ora cresci.”
La biblioteca è scomparsa.
Bruciata.
Con lei, secoli di sapere, di sogni, di errori.
Eppure, qualcosa sopravvive.
Qualcosa di imperfetto. Di frammentario.
Come questo manoscritto.
Ho cercato di ricostruire quello che ho visto, quello che ho sentito.
I nomi, i luoghi, i volti.
La paura.
La meraviglia.
La verità.
Ma so che non è perfetto.
So che non restituirà mai quello che è andato perduto.
Non le parole.
Non il riso.
Non Guglielmo.
Lui mi ha insegnato che pensare non è peccato.
Che dubitare è un atto d’amore verso la verità.
E che cercare… è l’unico modo per non smettere mai di essere vivi.
Ora, mentre chiudo questo scritto, sento che il tempo mi sta finendo.
Ma non ho paura.
Perché c’è una parte di me che è rimasta lì, in quei giorni.
In quell’abbazia.
Tra le pagine di un libro che non esiste più.
Nel silenzio che resta quando tutto è stato detto.
E se un giorno qualcuno troverà queste parole…
forse non capirà tutto.
Ma capirà una cosa:
Che ci sono verità che si cercano per tutta una vita.
E altre… che ti trovano.
E non ti lasciano più.
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